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Visioni di Fellini e Kurosawa

6 agosto 2012

Pubblicato in: Attualità

A ondate arriva il segnale di qualcosa che s'insinua, subdolamente, nella nostra psiche, e adesso tocca ai sogni: non si sogna più come un tempo, conquiste e affronti del mondo d'oggi – responsabili i modi nuovi di pensare e sentire – avrebbero modificato l'ancestrale natura del nostro "immaginario", per usare una parola venuta in auge tra i vezzi semantici ormai in uso. Sulla materia, chissà se volendo cavarne le avvisaglie di una futura salute mentale dell'umanità, si prodigano sociologi, psicologi, neurologi, antropologi, quasi fosse venuta meno, all'improvviso, la lezione di quanti si sono calati non in vaghi meandri, ma nella profondità del sogno per cogliervi i segreti dell'inconscio.

Ho l'idea che tutto rimarrà simile a quando la prima delle creature si trovò a sognare nella notte che precedette l'inizio dei giorni, degli anni, dei secoli, dei millenni, forse anche dell'eternità. Celate in noi, quelle arcane forme appaiono e spariscono senza posa, come le lucciole, in un punto sempre diverso del buio.

Solo maestri di visioni, come Fellini o Kurosawa, furono in grado di farli durare. Il sogno era l'altra vita che ci abita dentro: quella che, intoccabile, si concede una straordinaria libertà. Sembra, in sogno, di entrare ovunque, anche in qualcosa che è senza di noi, al di fuori, a volte persino contro, ma così profondamente nostro che non possiamo liberarcene. Ciò che colpisce, semmai, è l'ineluttabilità di ciò che questa vita insieme irreale e ordinaria ci suggerisce, ci rivela. E qui Fellini, per dir così, navigava a vista: «Nel sogno bisogna cogliere le rappresentazioni più creaturali, incontaminate; sono i sogni sull'infanzia a dirci, da adulti, chi eravamo destinati a essere», diceva. Penso al bagno nella tinozza di lui bambino, in Otto e mezzo, alle mani di donne allegre e ubertose che lo insaponano e risciacquano con l'acqua pulita che, cadendo dall'alto, gli scompigliava i capelli, poi i teli bianchi e fumanti che lo avvolgevano strofinandolo a dovere, sul lettone, tra finte grida e una tenera, già adescante dolcezza sulla pelle. Fu a partire da quella sequenza che, ricordo, cominciammo a raccontarci i sogni.

A Chernobyl, dove stavo ricostruendo la tragedia del "quarto blocco", ebbi un grave incidente automobilistico. Per portare in fondo un delicato intervento chirurgico fu necessario tenermi a lungo senza coscienza, uscendone del tutto dopo due tentativi di risveglio e altrettanti inabissamenti. Il risultato divenne una sequela di segni così enigmatici che Federico li prese come dei racconti a loro modo esplicativi e persino ammonitori; e mi esortava a scriverli perché, prima o poi, secondo lui ne avrei perduto il ricordo. Un pezzo alla volta, infatti, li ho lasciati chissà dove, salvandone solo qualche brandello per un libro di versi. Nel più felliniano dei vaneggiamenti, ecco il sogno di Chernobyl: camminavo su una corda distesa tra due palazzi di una piazza, con il bilanciere degli equilibristi, quando la corda venne meno, dissoltasi sotto i piedi, e precipitai verso la fine del mio viaggio. Ciò che ha tenuto in vita fino a oggi quel sogno fu il commento di Federico: «Ma chi ha detto che fosse la fine e non l'inizio del viaggio?». Non voglio ingrandire, qui, il significato di quelle parole, penso soltanto a come una irrealtà misteriosa abbia incrociato, annodandoli, il sogno raccontato a Fellini e quello di Kurosawa, scritto e disegnato nel libro Volare, che arrivò in Italia nel '92, edito dal "gruppo Abele", per il quale mi fu chiesta la prefazione. «È sorprendente - scriveva il grande regista giapponese - quanto l'inconsapevole e universale genialità della mente umana, frutto di un infinito desiderio di purezza, si riveli sognando». Era la stessa idea cui Fellini aggiungeva che «sognando possono apparire e dissolversi, in chiunque, le facoltà di un genio»; e lo divertiva l'idea di poter essere incluso in quella "spropositata possibilità".

Il libro di Kurosawa è fuori commercio e, tranne nelle biblioteche, non potrete vederne i disegni, degni di Chagall. Ma posso riassumere il testo: «Sono uno studente della scuola media – scrive il regista – vestito con l'uniforme e il cappello scolastico. Camminando in equilibrio su un cavo di acciaio guardo il fondo valle dove una moltitudine di uomini piccoli piccoli forma come dei mulinelli colorati. La testa comincia a girarmi, le gambe tremano, il cavo dondola. Allargo in fretta le braccia , arriva un colpo di vento, perdo l'equilibrio, scivolo e cado in mille giravolte. Agitando le mani nell'aria, e cercando dove aggrapparmi, mi sembra di avere afferrato qualcosa... la caduta si arresta e il mio corpo vola felice: le mie mani stringono quelle, bianche e gentili, di una fanciulla vestita di un abito chiaro e vaporoso. Tenendoci per mano voliamo tra valli colme di grattacieli. Guardo meglio e vedo la fanciulla che ha le ali: un angelo! Sono felice, con il cuore leggero mi abbandono alla grazia dell'angelo, che mi guarda con un dolce sorriso. Ora scendiamo dolcemente lungo il fianco di una montagna, mentre i fiori che sbocciano qua e là si piegano fremendo al nostro veloce passaggio. Improvvisamente si ode, lontana, una voce: "Ehi, aspettami!" Mi guardo intorno: "Chi è?" "Sono io, la tua ombra!" Un'ombra nera vola anch'essa lungo il pendio fiorito della montagna. Sventolando le mani, grida: "Ehi, dove stai andando?" "Non so" "Torna qui!" "Non voglio tornare!" "Le vacanze estive stanno per finire, hai ancora tanti compiti di matematica e geometria…" "Noiosa, vattene, non mi seguire" La notte sta per cadere, presto l'ombra non si vedrà più. La mia si è già fermata sul pendio.

Sempre condotto dall'angelo risalgo in un cielo pieno di stelle. Marte, Saturno... mentre guardo diventano sempre più grandi... "Questo è l'universo?", chiedo all'angelo. L'angelo sorride. Torno a voltarmi e gli dico: "L'universo è bello, ma ho voglia di ritornare sulla Terra!" L'angelo lascia la mia mano e si allontana. Io grido: "Grazie… arrivederci!".

Sono già sull'erba della vallata, non ho sentito alcun impatto. Alzandomi ho accanto a me l'ombra nera. Si è fatto giorno, l'ombra è molto arrabbiata. "Che razza di tipo sei?" E io: "Mah, non so bene. Stavo camminando sopra una corda... poi sono caduto..."

L'ombra incalza: "Anch'io sono caduta, ma sbattendo sull'asfalto! Tu, invece, senza preoccuparti di me, te ne sei volato via, e adesso ti sei posato sull'erba. È possibile una cosa così stupida? Ora non mi interessi più". E io: "Ma forse è un bellissimo sogno!" L'ombra, imbronciata, si alza e inizia a camminare. Io, correndole dietro, la prendo per mano: "Dai, non ti arrabbiare!" Nel cielo sereno e azzurro nuvole dalle strane forme giocano tra loro».

***

Quei due sogni, sarà una debolezza, mi sono cari. Andavano a connettersi nella stessa vertiginosa combinazione creatasi in volo, con la stessa inafferrabile realtà, in un punto sconosciuto dell'universo. E qui ho un sospetto, non capisco se più ineffabile o solo lunatico: chissà se i due sogni avevano, tra loro, nella loro similitudine, una qualche psicoanalitica voglia di lasciare all'inesplicabile la natura, o il bisogno, di un viaggio.



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