Dobbiamo ad ogni costo cambiare la legge elettorale. È amaro prendere atto che la soluzione più giusta per l’Italia – quella maggioritaria a doppio turno – non abbia il consenso necessario per essere approvata. Ora bisogna stringere e bisogna farlo rapidamente. Si verifichi se regge ancora l’intesa su una legge con il 50% di seggi assegnati in collegi uninominali, a un turno, e l’altro 50% in circoscrizioni medio-piccole, a proporzionale e sbarramento del 5%.
Una tale proposta non deve essere complicata con inserimenti anomali, quali il diritto di tribuna o premi di maggioranza: è la dimensione medio piccola delle circoscrizioni che di fatto determina, come in Spagna, il premio elettorale alle forze politiche con più consenso. Se anche questo accordo fosse tramontato allora io sposo – e credo che tutti farebbero bene a convergervi – le proposte di profonda modifica della legge esistente, avanzate dal professor D’Alimonte: divieto di candidarsi in più collegi; sbarramento del 4-5% alla camera e al senato, ci si presenti da soli o in coalizione; premio di maggioranza nazionale, per camera e senato, che scatti al di sopra del 40-45% dei consensi conseguiti; infine, presentazione dei candidati in collegi uninominali e attribuzione degli eletti, tra i partiti che superano lo sbarramento, con il meccanismo in vigore per le provinciali.
Una tale legge cancellerebbe gli aspetti insopportabili del Porcellum: consentirebbe ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti in parlamento e di contribuire a determinare le maggioranze di governo. Approvare una nuova legge elettorale è condizione preliminare per ricostruire quel rapporto di fiducia tra partiti, parlamento e cittadini, che in questi anni si è logorato. Oltre alla approvazione, in questi giorni, della legge che dimezza il finanziamento pubblico ai partiti sottoponendolo a rigorosi controlli esterni, sono importanti altri due provvedimenti: attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, conferendo ai partiti una natura giuridica e non privatistica, che sola permette di sanzionare ogni degenerazione.
Infine una legge costituzionale, che riduca di circa il 20% il numero dei parlamentari: il Pd non può rinunciarvi. Pdl e Lega, con il patto scellerato che al senato ha portato al voto di scambio su un mostro istituzionale chiamato senato federale (250 senatori eletti; 42 designati dai consigli regionali; possibilità di presenza dei presidenti delle giunte; diritto di voto dei rappresentanti regionali su provvedimenti relativi alle materie concorrenti, cioè sostanzialmente su tutte visto che il senato avrà in esse il suo compito fondamentale; non fiducia al governo ma possibilità di far cadere il governo con voto misto senatori – esponenti delle regioni se questo dovrà mettere la fiducia su leggi in materie concorrenti) e un semipresidenzialismo populista, privo di equilibrio tra i poteri dello stato, hanno impedito di scorporare la riduzione del numero dei parlamentari. Il Pd deve imporre un voto dell’Aula su un provvedimento costituzionale specifico: vedremo chi rifiuterà il consenso e impedirà di farlo entrare in vigore con le prossime elezioni politiche.
Un’ultima parola sulla proposta di legge costituzionale per istituire un referendum di indirizzo, che permetta ai cittadini di scegliere tra governo parlamentare del primo ministro o semipresidenzialismo: già 37 senatori l’hanno sottoscritta. Con i consensi vi sono state ampie critiche: del tutto legittime. Un solo tipo di obiezioni è incomprensibile: quello che, per vezzo accademico o giacobinismo politico, ha paura che siano i cittadini a decidere. Quelle posizioni non capiscono che non è più tempo di deleghe in bianco, né ai partiti né ai professori. La paura della partecipazione spalanca le porte a populismo e antipolitica. Una forza nuova di sinistra deve avvertire come un valore e sollecitare la partecipazione dei cittadini.
Vannino Chiti
europaquotidiano.it