A giudicare dalle ultime
dichiarazioni, sembra che la questione dell'
articolo 18 sia stata accantonata. Bene così. Ieri,
Michele Serra, nel suo appuntamento quotidiano, riassumeva con la consueta puntualità i termini della questione:
"Si intende a fatica (la materia è complicata) che l'antipatia per l'articolo 18, quello che limita la libertà di licenziare, è motivata dal desiderio di rendere più fluido e più "moderno" il mercato del lavoro. Meno obblighi e meno regole, e tutto funzionerà meglio. Ora, a parte che precedenti deregulation promisero prosperità diffusa e finirono invece per approfondire le differenze di classe; e dunque si è legittimati a drizzare le antenne ogni volta che risuona la formula"meno regole", viene da osservare che la libertà di licenziare può funzionare da frustata benefica a patto che l'offerta di posti di lavoro sia brillante e magari in aumento, tanto che il licenziato, appena uscito dal portone della sua azienda, possa bussare al portone di fronte per trovare un nuovo impiego. Ma in recessione, e con una lunga coda di ragazzi che aspettano lavoro, che risultato può mai dare la libertà di licenziare, se non quello di ingrossare l'esercito dei disoccupati? E in un momento in cui il principale problema, per il governo, è cercare di tenere fede almeno in parte alle promesse di equità, o almeno di non eccessiva inquità, c'era proprio bisogno di tirare in ballo il povero articolo 18, che é uno dei pochi drappi laceri e gloriosi che il mondo dei salariati può ancora sventolare sopra le macerie della propria sconfitta?".
Qui, invece, un'analisi più completa, che dimostra l'assoluta inconsistenza delle polemiche di questi giorni.
Adesso, però, bisogna presentare le nostre proposte per l'universo dei precari. Perché l'argomentazione che i sindacati, ormai, difendano un nucleo sempre più ridotto di lavoratori anziani e garantiti, senza occuparsi delle nuove generazioni, è una delle più convincenti. Non basta più, putroppo, solo difendere. Bisogna attaccare.
Enrico Moretti